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Ago 09

Una gustosa erba spontanea: lo spinacio del buon Enrico

I03n Valsassina lo chiamano “parüch” ed è una piantina mangereccia che possiede una vena di gusto personale e intrigante: impariamo a riconoscere e a cucinare lo “Spinacio selvatico del buon Enrico” con alcuni consigli botanici e gastronomici.

Chenopodium bonus-henricus L.

Pianta alta dai 30 ai 90 cm, con radice grossa e giallastra e molti fusti; le foglie sono astate, grandi, picciolate o sagittate, ondulate al margine, lunghe 5-8 cm, verdi e ricoperte di una pruina bianca e farinosa, grassette, tenere, con il picciolo più corto della lamina fogliare. I fiori sono piccoli e insignificanti, verdastri, agglomerati in pannocchie apicali simili a spighe. Fiorisce da giugno a settembre. Lo spinacio selvatico è comune infestante in collina e montagna, facilmente individuabile in ambienti ruderali presso casolari di campagna, pascoli grassi e alpeggi. Si può raccogliere dalla primavera all’estate sfruttando i continui ricacci. Si consumano le foglie e le sommità prima della fioritura, cucinate con le stesse modalità in uso per gli spinaci coltivati: lessati e passati in padella, oppure in frittate, ripieni e focacce. Ha un notevole pregio organolettico e un grande valore nutrizionale, essendo ricco di sali minerali (ferro) e vitamine (B1).01

La leggenda narra che Enrico IV di Navarra nel 1600 decise di sfamare la popolazione allo stremo aprendo i cancelli del suo parco reale per consentire la raccolta delle erbe selvatiche che vi crescevano. Per gratitudine il popolo gli dedicò una pianta, quel buon spinacio selvatico che ogni cucina montanara conosce.

Ricorda di raccogliere solo le erbe che conosci nel pieno rispetto dell’ambiente!!

La ricetta: “Gattafin” di Levanto come li faccio io

Per la sfoglia:

  • 200 g di farina;
  • olio;
  • un uovo;
  • acqua e sale q.b.

Per il ripieno:

  • 200 g di spinaci del buon Enrico e cime di ortica (ma anche borragine, erbe selvatiche miste e bietole) lessati, strizzati e tritati grossolanamente;
  • un uovo;
  • 50 g di ricotta;
  • 50 g di grana padano grattugiato;
  • pane grattugiato q.b.;
  • maggiorana;
  • un pizzico di pesteda grosina, sale.
  • olio evo per friggere.

08Amalgamare tutti gli ingredienti del ripieno facendo attenzione che non risulti troppo bagnato. Preparare la pasta e stenderla in maniera tradizionale.

Posizionare il ripieno, un cucchiaio per ogni raviolo, ripiegare la sfoglia e con la rotella tagliare in modo da dare la classica forma a mezzaluna (si ricorda che i “gattafin” sono grandi circa 8-10 centimetri). Friggere in olio bollente, scolare, asciugare su carta assorbente e servire tiepidi (le dosi permettono di preparare circa 20 grossi ravioli).

I “Gattafin”, solitamente serviti come antipasto, sono un piatto storico del territorio ligure: la preparazione è ancora oggi soltanto locale e per tutelarla l’associazione Sapori di Levanto, ha voluto registrarne la denominazione, depositando il marchio “Gattafin”.

Ci sono due teorie sull’etimologia del nome di questo piatto:10

  • dalla raccolta di erbette selvatiche (soprattutto borragine e maggiorana) da parte dei “picchettini” della vecchia cava di pietra in località la Gatta, nelle vicinanze di Levanto e utilizzate dalle loro mogli per preparare il ripieno di questi ravioloni fritti in olio extravergine d’oliva. Da qui il nome di “Finezze della Gatta” ovvero Gattafin.
  • dal legame con la parola trecentesca “gattafure”, che allude soprattutto a torte con ripieno; nel Rinascimento, le torte di verdure liguri hanno dato origine anche ai ravioli, che allora si consumavano fritti.

Testo e foto di Roberto Olgiati